giovedì 27 settembre 2018

Ostia!


In Spagna la parola hostia, non è una bestemmia.

Y yo estaba furioso de la hostia, (dannatamente) furioso.

Una sobrecubierta de la hostia. (fantastica) Fue una alegría ver esa nota salir del fax.

¿Senti il suono, la forza, il colpo da dietro che fa impennare e detonare la rabbia o la gioia?

E’ una parola utile, straordinaria, una parola che accende la miccia.

domenica 2 settembre 2018

Vedi Cara

L’innamoramento non è per sempre. Deve finire per far si che nasca l’amore.
Nell’amore si ha il governo di sè, non si è più travolti da passioni o deliri.
L’amore non è affettività, non è consolazione, non è il tanto tempo che si stà insieme.
L’amore è il gusto della scoperta dell’Altro. 
Se si ha difficoltà a percepire l’”alterità”, l’identità dell’altro, l’Amore diventa possesso e se non si è in grado di gestire ciò che sfugge al possesso, l’Amore si estingue.
Un amore per sempre lo immagino come quello tra Michelangelo e il suo Mosè.
Dal giorno in cui cominciò a scegliere i pezzi di marmo al giorno in cui finì l’opera passarono 40 anni.
Quarant’anni di scalpello e martello per dargli forma, tra momenti di passione e di odio per non riuscire a finirla, momenti in cui avrebbe voluta finirla ma gli fu impedito.
Mai soddisfatto, alla fine quando lo completò lo guardò e vide che c’era ancora qualcosa di segreto. “Gli scaraventò addosso lo scalpello chiedendogli “Perchè non parli?”
O si è capaci di questo o è meglio non imbarcarsi nell’amore, conviene rimanere al livello elementare delle passioni, lì sono capaci tutti, non occorre fare niente, si è rapiti.
Il salto dall’innamoramento all’amore è un salto mortale.
L’amore non è uno stato di tranquillità, non è la quiete dell’anima, non è prospettiva di garanzie per il futuro, non è neppure una passione.
L’amore è una guerra.

Umberto Galimberti


Ho desiderato ci scalpellassimo per sempre.



domenica 5 agosto 2018

Spontaneità




La spontaneità a differenza dell’ironia si può imparare, basta non pensare. Anche se adottare l'infischio su quello che sto per dire o per fare porterà come conseguenze quelle di farmi litigare con la ragazza, farmi perdere il posto di lavoro, la stima dell’unica persona che credeva in me, farmi sbattere dietro le sbarre di una cella, credo ne valga la pena. Non rimarrò solo e abbandonato da tutti, ho un gatto.


---


L’ultimo punto in agenda di oggi è scritto in rosso. Pianificare la spontaneità
Il titolo è paradossale. La spontaneità non la si programma ma forse la pista da ballo su cui deve brillare, si.
Il suono di campane suonate da una chiesa vicina è come una pesante palla d’acciaio da demolizioni che fa breccia nella concentrazione e abbatte pezzo dopo pezzo il ragionamento. La melodia, dolce come lo sgranocchiare pistacchi col guscio dev’essere anche allucinogena. In perfetta sintonia del suono con le immagini mi ritrovo nel 1865, soldato della confederazione sudista con una gamba a stampella mentre cerco di scendere una lunga rampa di scale. Con movimenti simili a piccoli salti con l’asta a metà rampa scivolo su una buccia di banana gettata da uno schiavo appena liberato dalle truppe nordiste e saltello col culo su tre gradini per riprendere la posizione eretta che possa permettermi di spiccare un rovinoso tuffo ad angelo sul pianerottolo. Sono le 23.30 di sabato sera. Frà Martino avrà invitato gli amici brilli del pub a suonare la mezza e si saranno lasciati prendere la mano.

Rilessi tutti i punti.

Pianificare spontaneità

1. Esternare dimenticandosi di contare fino a dieci.
2. Liberare l’intuito.
3. Mantenere il corpo sciolto.
4. Usare tutti i cinque sensi.
5. Non mollare, fino al raggiungimento dell’obiettivo o della morte.

Domani comincerò l’allenamento con una colazione al bar 69.
Fossi lì adesso chiederei al barista se ci sono “menù colazione” e nello specifico se c’’è il menù “La Gang del Bosco”, quello che fanno anche al Bar Civerchi girato l’angolo, consistente in: spremuta d’arancia, caffè, panino con salsiccia di cinghiale, cappuccino, tre croissant, una fetta d’anguria e una granita alla menta. Il tutto a tre euro e cinquanta.
Siccome non sono lì e la simpaticonata l’ho già confezionata, non sarebbe spontaneo dirla domani.
Non farò o dirò qualcosa di già visto o pensato, mi verrà qualcos’altro.
Alle sei e trenta vengo svegliato dal ronzio della mosca conosciuta ieri in bagno. Camminava senza sosta sulla superficie interna del vetro della finestra aperta senza riuscire ad uscire. Superare i pochi centimetri dell’intelaiatura di legno che le avrebbe dato libertà non era una scelta logica. Il legno non si può attraversare.

Aggiungo alla lista la voce quattro punto uno.
4.1 Se ci si sente in trappola abbandonare le certezze.
Dopo che avrò fatto colazione al bar racconterò come è andata. Non prima.



lunedì 30 luglio 2018

Le Foppe



La foppa, sono convinto voglia dire “buca piena d’acqua”.
Alle Foppe, luogo, ci si arrivava percorrendo tutta la Via Guarnerio fino in fondo e proseguendo sulla strada che portava a Roncello.
Negli anni ’70 l’ultima casa della via era il 46 o il 48, la mia il 44. Poi negli anni costruirono tutto il resto, la casa dei Fumagalli, quella di Pietro costruita con suo papà in quattro anni, nei giorni di sabato e domenica. Di fronte a casa mia c’era la grande villa del Sindaco. Lo conobbi sotto il punto di vista professionale quando mi convocò nel suo ufficio con altri tre amici, tre mamme degli amici e il papà di Alfio. Restituimmo la refurtiva, e promettemmo di non farlo mai più se non volevamo essere denunciati ai Carabinieri.
Il Sindaco ci congedò. Subito fuori dall’ufficio, Alfio le prese da suo padre.
Il calcio glielo diede perchè tutti avevamo un motivo per prendere i soldi, lui il suo aveva pensato fosse meglio non dirlo. Se ne stava lì zitto con la testa abbassata e gli occhi da cagnolino. Lo scappellotto secco che seguì glielo appiccicò su mandibola e collo perchè lui era quello che aveva preso più soldi di tutti. L’ultimo ceffone glielo diede dal nervoso.
Ma questa è un’altra storia, avvenne qualche anno dopo e non c’entra niente con Le Foppe.


Le Foppe
Sulla strada per Roncello c’era una fornace. Mattoni, laterizi, vasi da fiori.
Per farli occorreva l’argilla. In un terreno vicino c’era. 
Inviarono ruspe e camion e iniziarono gli scavi e il trasporto della terra in fornace.
Quando l’argilla era sporca di terreno limoso o sabbioso le ruspa si fermava e procedeva in un’altra direzione. Abbandonarono presto il terreno lasciando una buca quadrata di una ventina di metri per lato e altre tre buche dai contorni irregolari. 
Col tempo l’acqua piovana e le infiltrazioni le riempirono d’acqua, qualcuno ci mise dei pesci e la natura fece il resto. La vegetazione e le intemperie coprirono e levigarono le tracce dei cingoli, smussarono le squadrate palate delle ruspe, il verde si arrampicò sulle collinette brulle di terra da riporto. I mesi e gli anni trasformarono un campo di battaglia in un'oasi. Un’oasi di flora e fauna formatasi dalla dimenticanza. Tappa fissa di anatre migratrici, pescatori, cacciatori e bambini avventurosi. A quarant’anni di distanza non saprei che fine abbiano fatto “Le Foppe”. Con google maps non ne ho trovato traccia. Ditemi che ci sono ancora più belle che mai.

venerdì 6 luglio 2018

Morto che Parla




Ultimi istanti di una storia di "amore per sempre”.
La Storia d’Amore, quella che capita una volta nella vita a pochi fortunati, quelli legati dal filo rosso. Paure, incomunicabilità e fuga, violazione di un sistema di forze sacrali.
Un religioso peccato.



Nessun aiuto in vista.
Nessuna risposta agli sos gorgogliati tra una bevuta e l’altra.
Dopo aver nuotato e annaspato e bevuto a lungo per giorni, l’unica salvezza era mettersi a fare il morto.
Mi abbandonai.
Sostenuto dai flutti lanciai un crowdfunding rivolto ad ogni cellula per la raccolta di nuove energie.
Quando naufrago ho bisogno solo di tempo, solo un po’.
Forse è un problema di pulizia neuronale.
Gli spazzini stanchi si addormentano e i neuroni da buttare intralciano le strade di comunicazione tra quelli in esercizio che non si capiscono più. Uno spinge e l’altro tira, uno dice Torino e l’altro capisce tombino, non collaborano. Alla fine si esauriscono e si spengono andando a fare compagnia ai netturbini.
Lei proprio non mi sopportava da morto, neanche da vivo, ma da morto di più.
Alla vista del me morto i suoi occhi schizzavano a sinistra forza nove come biglie metalliche attratte da una potente calamita appoggiata alla tempia, e iniziava il bombardamento con risposte preconfezionate, sempre le stesse, il cui sunto era: non ti piaccio più, non stai bene con me, non mi ami, mi hai fatto solo perdere del tempo, ecc. ecc.
A quel punto avrei dovuto sostenere un’arringa, sfoderare l’impegno oratorio, l’insinuante persuasione, muovere affetti e sentimenti.
Impegnandomi al massimo, tutto quello che riuscivo a proferire era un: “non lo so”.
48, morto che parla.
A quel punto si alzava, raccoglieva le proprie cose stipandole nella borsa e abbandonava la camera ardente.
Mi dispiace che ora lei non sia qui.
Vorrei dirle che mi sento morto dentro quando non mi piace il mio corpo, quando mi sento vecchio e stanco, quando non ho avuto tempo per me stesso, quando non ho avuto la possibilità di vederla o di dirle una cosa proprio in quel momento, quando non riesco bene nel lavoro, quando non mi sento all’altezza, quando non mi sento in diritto di desiderare, di ricevere piacere.
Ormai non c’è più, peccato, ora l’ho imparato.





giovedì 5 luglio 2018

Mal di Testa




E’ stata una vera fortuna conoscere le donne della mia vita e amarle. Mi hanno riempito di attenzioni, comprensione, affetto, amore, regali, link a siti web, stimoli musicali, culturali, qualcuna di loro mi ha dato figli stupendi.
Poi le storie finiscono ma l’amore, se c’era, resta per sempre.
Quando l’illusione di un amore si infrange oltre lo specchio non lascia nulla, toglie qualcosa.
A me è successo che la fine di un illusione mi abbia tolto il mal di testa.
Non ebbi più bisogno di prendere la pastiglia quotidiana di Voltadvance, un voltaren avanzato solo nel nome, perchè in realtà non avanzava mai nessuna pastiglia. Via una scatola un’altra come fossero pacchetti di sigarette. Una o più pastiglie tutti i giorni.
L’arrivo della cefalea era dato dall’irrigidimento delle spalle che si ramificava avvinghiandosi al collo fino a farlo diventare legno. Le vene infeltrite sembravano trattenere lungo il percorso l’ossigeno che faticava a irrorare il cervello. Da lì al mal di testa il tempo era quello di un attimo. La pastiglia andava presa per il collo, Il mal di testa non avrebbe brillato, il voltadvance l’avrebbe avviluppato in una bolla col preferibile effetto di ottundere metà cervello. C’era, non faceva male ma neanche bene. Non prendere la pastiglia voleva dire, passare sei ore a letto immobile, senza neanche la forza di rispondere al telefono, come una salma a cui squilla il cellulare dimenticato nel taschino. Ai medicinali l’organismo si abitua e il loro effetto con l’abitudine, sciama. Quindi in alternanza, acido acetilsalicilico, paracetamolo, ibuprofene, ketoprofene, flurbiprofene, naprossene, diclofenac. Tutti i giorni, per mesi. C’è qualcosa che non va, mi sono chiesto. Ho escluso il tumore al cervello perchè sembra non dia sintomi. La vecchia caduta in bici con costole e anelli della colonna vertebrale incrinati, possibile. Onde magnetiche di ripetitori per cellulari sparate nell’aere, wi-fi, bluethoot, detersivi, acari della polvere, il lavoro, lo stress, il mammasantissima. Ho vagliato ogni possibilità, sperimentando per esclusione.
Ora i miei mal di testa sono solo un lontano ricordo. Mi è bastato tornare single.




giovedì 28 giugno 2018

L'ultimo Passaggio a Livello


Risparmiate l'ultimo passaggio a livello della città.
Quando il passaggio a livello è abbassato smonto da sella, in canna appoggio gli avambracci al manubrio e osservo. C'è gente. Raro trovare chi si lamenta, ci si rassegna e ci si gode la pausa. Qualcuno si conosce e chiacchiera, qualcun’altro non si conosce e chiacchiera. Vedo il gatto che abita ai binari e come la natura giorno dopo giorno si mangia la casa della ferrovia. Guardo le bici e gioco a ridistribuirle tra i ciclisti più o meno razionalmente. Guardo dove sta andando il cielo e chi lo abita. Comprendo che sulle autoimmobili ibernate non c'è un party.
Il nipotino è il primo a vedere il treno che passa nel racconto del nonno.
Poi il treno passa, tutto passa, ma io c'ero.

lunedì 25 giugno 2018

Inbar Lavi




Blackout cerebrale mentre mi trovo nel reparto ortofrutta di un supermercato, tra zucche e patate.

Non a causa del prezzo del Cavolo Nero o per avere letto l’etichetta degli insensati limoni biologici che arrivano dal Sudafrica. Così, senza un apparente motivo, il cervello non risponde, ha fatto click e si è spento. Che ci faccio qui, non so più di cosa ho bisogno, di cosa ho voglia, quanti soldi ho in tasca, perchè sono al mondo. Quale mondo? La realtà si è dissolta. Forse a causa delle luci al neon, del denso brusio dei consumatori, del che sono a stomaco vuoto? Non mi era mai successo. Forse è così che si annuncia un attacco di panico. Si perde il contatto, si spalanca l’abisso e ci si spaventa.

Con la testa imbottita come se mi avessero insufflato da un orecchio della schiuma espansa tipo quella per riparare i pneumatici forati, mi guardo dal di fuori come con gli occhi di un altro e risulta evidente il mio stato di difficoltà e di malessere. Per ora sono invisibile ma qualcuno potrebbe accorgersi di me.

Allora cerco di afferrare un pensiero, uno qualsiasi che rifaccia partire l’elica, uno qualunque da tirare come fosse la corda di un motore di una piccola imbarcazione che mi porti via a tutta velocità. Comprerò due zucchine.

Dopo due minuti per scollare l’apertura del sacchetto e un altro minuto di zuffa col guanto, rinuncio e li riporto rispettivamente ai loro posti mandando a quel paese le zucchine che neanche volevo.

La salvezza è oltre le casse. Con passo sicuro, con lo stesso cipiglio di uno che ha un altissima probabilità di precipitare in un tombino lasciato aperto, abbandono il reparto verdure, mi addentro con sbuffi di vapore nel freddo siberiano del reparto latticini e la vedo.

Il suo viso riflesso sul vetro dell’armadio frigo delle mozzarelle, non lascia dubbi, è Inbar.

Inbar Lavi. Un’attrice israeliana. Uguale.

Sento la linfa vitale riprendere a scorrermi nelle vene, vorrei dirle qualcosa, attaccare bottone ma mi manca il filo. Elaboro la strategia psittaciforme nascosto tra gli scaffali del pane e focacce. Trovata. Mi lascerò guidare dalla spontaneità, con un approccio wood, alla Woody Allen o alla Clint Eastwood. Mi dò un tono, vado. E’ sparita. Scandaglio ogni superficie, scansiono ogni meandro, frugo in una confezione di korn flakes. Non c’è più. Ma ecco che ormai rassegnato mi sorprende, apparendomi in attesa al banco del pesce.

“Ciao, scusa ma te lo devo proprio dire. Sei l’identica copia della protagonista di Imposters, una serie tv. Forse te l’hanno già detto? Ah no, strano. Sei identica. L’attrice è israeliana, risaputamente le donne più belle del mondo. Nella serie tv interpreteresti il ruolo di una donna che seduce uomini e donne, li fa innamorare perdutamente, li sposa, gli ruba tutto e poi scappa. Nelle ultime puntate si ritrova vittima dei suoi complici truffatori avidi e assassini. Non ha un buco al posto del cuore, neanche un blocco di granito ma neppure un saltamartino, difatti alla fine si innamora del “pollo” di turno che in realtà è un agente dell’FBI sulle sue tracce, un bel trappolone pelato e palestrato.”

“Potresti farmi un autografo tarocco? Se mi concedi anche un selfie poi fotomonto le due cose e posso farmi fortunato con gli amici.”

Mi ha concesso l’autografo, il selfie e in più il numero di telefono, al quale ha risposto un certo Luigi, di Cantù.

giovedì 7 giugno 2018

Tentata Vendita




Parcheggio l’auto in pieno sole di fronte al bar. Sono giorni che lo tengo d’occhio. Hanno cambiato gestione, stanno ristrutturando e non c’è niente di più facile che vendere pubblicità ad una nuova attività. Non mando mail, non telefono, non prendo appuntamenti, salto dentro all’arrembaggio quando meno se lo aspettano. Prima che aprano bocca ho già in mano penna e contratto e inizio a scrivere. Sono un tipo insicuro, ultimamente anche eclettico dicono, per questo esagero. Non è una buona idea parcheggiare l’auto di fronte al bar, potrebbero vederla.

Ha vent’anni, la carrozzeria è ammaccata, graffiata, gratuggiata, abrasa, scolorita, attaccata da uno stormo di picchi rossi. Non la lavo da quattro anni per paura che si sciolga. Verifico che radio, ventola e luci siano spente per permettere alla batteria di fornire tutta la potenza disponibile esclusivamente al motorino d’avviamento. Giro la chiave dell’accensione. Il suono di un gatto in fuga con una lattina legata alla coda, di un bambino che con un cucchiaio di legno pesta forte su di una latta e di un barbiere che affila il rasoio sulla cinghia di cuoio, mi confermano che il motore si è acceso. All'incedere di una stonata manfrina a manovella danzata da bielle e pistoni, riparcheggio in una via laterale dietro ad un cespuglio ricoprendo il tetto e il cofano con arbusti secchi. Avvio la preparazione psico-fisica per l’appuntamento a sorpresa. Con sette respiri violenti per l’ossigenazione del cervello, mi accorgo di esagerare quando a pugni chiusi, tossisco e sputo una foglia aspirata da terra che mi si era incollata in gola. Sostituisco gli occhiali da sole con quelli da vista e mi avvio a piedi alla meta controllando che la patta dei pantaloni sia chiusa. E’ il mio giorno fortunato, la porta del bar è semiaperta. Allungo il collo nel pertugio ed entro con la stessa discrezione di Diabolik nel furto di diamanti al museo. Li vedo, sono in tre a ridosso di un tavolino appoggiato a gambe all'aria su di un altro tavolino. Stanno cercando di infilare l'ultima vite che assicurerà la gambe al piano del tavolo. Mi avvicino e li osservo. La mia vista li spaventa in un muto urlo di terrore fotografandoli in posizioni innaturali. Il basettone biondo rockabilly molla la mascella fino ad appoggiare il mento al tavolino, il paccioccotto in tuta blu aggrappato al tavolino viene sopraffatto da un attacco di tosse asinina e il terzo nella stessa posizione di chi seduto sul water si accorge dello stronzo che gli è rimasto attaccato al culo solo quando alzandosi, si stacca e centra in pieno le mutande calate.

Saluto e senza presentarmi, chiedo del titolare.

Nessuno parla, nessuno si muove, nessuno respira. Non riescono ad inquadrarmi, non capiscono chi io sia, le mie narici si dilatano aspirando a pieni polmoni l’odore della loro paura. Non vesto consueto, vesto elegante ma scombinato. Scelgo i miei capi con l’attenzione di un uomo nudo inseguito da un killer che correndo attraverso le bancarelle del mercato, arraffa capi d’abbigliamento a vanvera tanto per coprirsi e far cessare le urla stridule delle vecchiette appena uscite dalla messa.

Necessitando di una borsa che raccolga listini e contratti, mi è parsa una buona idea avvalermi di una di quelle borse da bici che si attaccano al manubrio della bicicletta.

Guardano me e la borsa, la borsa e me e percepisco il loro disorientamento per la borsetta da ciclista che porto a tracolla che non riescono a decifrare. Chi sarò? Le traiettorie degli sguardi corrono veloci come su un circuito Polistil, la palpebra di un occhio sbarrato vibra, una goccia della fronte esplodendo fa, plic. Mi godo il quadretto in silenzio, l’attimo di celebrità, dell’abuso di potere, immaginandomi ufficiale della finanza, dell'inps, dell'inail, dell'asl del ciuli fruli o giuli.

Quando mi presento come il più grande venditore terracqueo mondiale di pubblicità, la tensione evapora e tutti insieme tiriamo un bel respiro di sollievo, Mai ricevuta tanta accoglienza nel vendere pubblicità. Feci un bel contratto quel giorno, firmarono tutto.

Il giorno dopo, sul giornale lessi del loro arresto.

Nascondevano il vecchio titolare del bar nel congelatore.